Come definire l’artista Patrizia Diamante, senza dimenticare il suo
pseudonimo col quale regge uno dei blog più divertenti d’Italia? A volte con lei sembra di avere tra le mani un gioco: come una spirale che gira e mostra tutti i suoi travestimenti, ed ha bisogno
solo che tu ne ricarichi la molla producendo quel suono ipnotico che appartiene alle categorie dei carillon, dei cricchetti per chiave inglese, di alcuni antichi orologi. Ma P (oggi la chiamo
anche così) non finisce mai la carica. Vai lì a chiedere di un quadro e ti ritrovi davanti prima una serissima artista che di parla di tecnica, poi una vecchietta del 2030 che ti racconta
come faceva le manifestazioni degli anni ’70, e quindi una signora con un turbante ed ai piedi delle pinne che si offre di leggerti la mano. Altro che zen, questo è meglio dello
zenzero.
A volte sospetto che P sia un androide esageratamente sofisticato, altre volte penso che sia la
reincarnazione di Harpo Marx e la incito fortemente a non essere ansiosa, a non vivere di corsa, a non stare troppo in disparte, a non mangiare tutta la cioccolata, come spesso tendiamo a fare
noi donne creative non solo di prole.
Ho conosciuto la Diamante nel momento in cui lei stessa era già consapevolmente un’opera
d’arte. Se ne stava accanto ad una fotocopiatrice con una minigonna vertiginosa a pois, assieme ad un altro mail-artista, Ennio Carbone, ed allora non mi venne in mente che potessero essere l’uno
la trasmutazione chimica dell’altro. Non ho ben chiaro cosa facessero, stavano allestendo una mostra, facevano la fotocopia in movimento di una lucertola, forse di un geco, o di un dinosauro. Era
forse il 1986. Erano comunque gli anni in cui la mail art spediva messaggi di libertà e di abbattimento delle frontiere.
Lei era già una di quelle che i figli le dicono “mamma, come sei avaanti!”, controcorrente,
burlona e metamorfica come un colore cangiante. Faceva già di tutto: scriveva anche, ed era clownesse quando l’ambiente o la causa l’ispiravano,...un vulcano. In effetti quella di un vulcano in
eruzione fu la prima sua tela che vidi ad una sua mostra a Bologna, qualche anno dopo.
“Volate col dirigibile Kropotkin” è stato il titolo della sua seconda mostra che vidi poi,
a Firenze. Ricordo che allora mentre guardavo di sottecchi un quadro questo cadde, senza farsi nulla. In effetti l’arte di P sta stretta in due dimensioni, è più a tutto tondo. Comunque io in
quanto poeta venni colta non solo dalla consapevolezza della mia fantozziana ignoranza in tema di pittura ma anche da inquietanti sospetti. Certi schizzi infatti, certe tele, mi sembravano essere
pronte per diventare bassorilievi mentre le guardavo, e poi sculture non appena avessi girato le spalle, e quindi, veloci al passaggio si una nuvola, andarsene.
Altre volte ero più che altro intimorita: dopo aver messo a soqquadro mezzo mondo all’improvviso P se
ne stava lì, seduta, e sembrava che mi vedesse anche dandomi le spalle. P sarebbe capace di cogliere in un attimo me stessa, giocando d’azzardo come una sibilla e spietata come una
Medusa.
Altre volte P, col suo tratto morbido, ispira dolcezza: vedo le sue mani, sta cercando nella borsa il
cellulare che squilla e tenta di acchiapparlo come fosse una trota. Immagino mentre dipinge le sue mani piccole, bianche, che si muovono leggere come dotate di una vita propria, sembrano di
porcellana, vagano come mosse da una calamita, quasi fossero impiegate da una medium in una seduta di tele-lettura dei primi del Novecento. Questa capacità e questa forza magnetica sono un
mistero per noi poete che tentiamo invece di cogliere il reale con le parole, spesso sudate, scritte ai margini di un libro, nella mente di un corpo affaticato o sulla lista della spesa,
scarabocchi, vento che fa risuonare una bottiglia.
La forza di una donna che dipinge come P è la stessa di Bacon, che ha fatto rivivere i
ritratti di Dorian Gray, o quella di Giotto che disegna il cerchio perfetto, di una calla disegnata dalla Lempicka, di una sigaretta fumata dalla Dietrich, di un tacco a spillo calzato da Madonna
(scusate se sto esagerando, l’idea era buona ma si è guastata tra gli appunti, cosa che depone di nuovo a sfavore dei poeti!) La forza di uomini e donne che ancora scommettono col futuro e
lavorano per esso, in questi secoli che sembrano sempre essere gli ultimi.
Francesca Palazzi Arduini, detta Dada, datata lunedì10 novembre 2008.